Seppur cosciente di una definizione limitativa, Jung la definiva sincronicità. E’ lo scontrarsi di eventi del tutto acasuali, la moderna derivazione della matrice greca del destino.
Eppure, nessuno di noi ci crede veramente. Stringiamo i denti, ci affidiamo alla fede nello sconforto, ma siamo tutti convinti del nostro libero arbitrio. Convinti che possiamo costruire il nostro futuro, giorno dopo giorno. Perché dovremmo essere insoddisfatti, perché inventarci un nuovo dramma, solo per camminare, ora dopo ora, se tutto fosse già scritto? Scritto come un alone.
Ci riflettevo proprio oggi. Nella sincronicità fisica di una strada di Roma dove è nato il dramma di un personaggio del mio ultimo libro.
Chi sono, adesso? Un granello di polline trasportato dal vento nel deserto, alla ricerca di un’oasi dove posarsi. Un’oasi che credevo di aver trovato, senza accorgermi che tutto attorno a me stava già appassendo.
E’ quell’insoddisfazione perenne che non ti fa godere appieno nell’aver raggiunto un obiettivo, perché pensi subito a come inseguire quello successivo. Una corsa continua che non ti toglie mai il fiato. E’ la ricerca della nostra Bella Epoque, come in Midnight Paris, la volontà di costruire qualcosa ci trasforma in moderni eroi schilleriani. Poi, inevitabilmente, si finisce imprigionati nelle Notti bianche. Infinite. Dolorose. E ci perdiamo. In quel buio più scuro che precede l’alba.
E’ forse questo il problema. Il volersi sentire vivi e strappare ogni secondo della nostra vita come fosse l’ultimo. Siamo terrorizzati di finire congelati nella Melancolia di Dürer. Temiamo di invecchiare. Di morire senza aver vissuto. Di restare soli. Combattiamo contro il tempo, che si squaglia come nella Persistenza della Memoria.
Non dobbiamo accontentarci. L’ambizione è il nostro motore vitale. Ma l’insoddisfazione la sua ombra.
Fa parte del gioco.
Oppure, come direbbe qualcuno in modo più vero, dobbiamo innamorarci del giocatore e non del gioco.