Non ho mai avuto un bellissimo rapporto con i fiori.
Da piccolo ero innamorato dei crisantemi, fino a quando non mi hanno fatto notare che erano associati ai morti e al cimitero. Tuttavia continuo a pensare che il crisantemo sia il fior pù bello in assoluto.
Non li amo, è vero. Eppure spesso finiscono nei miei libri. E nei miei romanzi, volente o nolente, c’è sempre qualcosa di me. Inconscio o subconscio non ha importanza.
Il fiore è la gioia di una pianta, che esprime la sua vita. L’apice di una parabola di rinascita.
Il fiore, come regalo, è invece qualcosa di spezzato, tagliato dalla radice, destinato a morire nel breve periodo.
Detesto l’associazione di un fiore a un particolare significato. Odio, soprattutto, il concetto insito. Perché donare un fiore implica quasi sempre una motivazione.
Promessa, dichiarazione, perdono, ricordo, condoglianze, congratulazioni.
Un fiore è un’emozione, un sentimento, un gesto. Sostituisce le parole. E’ costretto a comunicare qualcosa.
Ma è anche destinato a morire.
Giorno dopo giorno, il fiore appassisce e si trasforma in una nuova metafora. La morte lenta e inesorabile di un gesto, di una parola, di un’emozione. Di un momento, di un ricordo. E’ un processo irreversibile di invecchiamento e scomparsa.
Sembra un controsenso, eppure amo i fiori appassiti e secchi. E’ come se dopo una lenta agonia avessero raggiunto l’immortalità di un significato. Le foglie secche, fragili e immobili. La corolla scolpita.
Il fiore si trasforma in una scultura. E’ il congelamento eterno di un sentimento. Qualcosa che va al di là della vita e della morte stessa.
Andrebbero regalati solo fiori morti.
Per questo adoro le rose nere, ma solo appassite.