Dunque, prima del post di oggi, una piccola premessa. Non ritengo che si debba frequentare una particolare scuola media superiore o università per diventare scrittore, e che quest’ultimo possa aver studiato materie scientifiche, essere un avvocato, un dentista, un ingegnere, o quello che gli pare. Perché la cultura è trasversale e non si acquisisce esclusivamente a scuola. Però, permettetemi, quando uno come Fabrizio Corona si improvvisa scrittore, i dubbi vengono eccome. E ci sarebbe tanto da dire, imprecare e quant’altro. Fatelo voi nei commenti. Stavolta non censurerò le parolacce, lo prometto.
Invece volevo parlarvi del mestiere dell’esordiente, iniziando col commentare un articolo che ho letto su Facebook, cioè: “CARI ASPIRANTI SCRITTORI, VOLETE ESSERE LETTI DA ME? PAGATEMI. (Massimiliano Parente per il Giornale, 7 febbraio 2011)”. (Fra l’altro, perdonatemi il campanilismo, lo scrittore è nato a Grosseto come me).
Comunque, la mailbox di Parente è intasata di manoscritti di giovani esordienti. La mia non è intasata, perché tutto viene girato su Gmail che per fortuna concede Giga di spazio. Ma ne ricevo anch’io, non tutti i giorni ma almeno 2-3 a settimana. Allora, come ho detto in passato, felice di dare un aiuto, specialmente se con queste persone esiste un certo tipo di rapporto, virtuale o meno. Ma non sono un editor, benché con il tempo abbia affinato tecnica e sappia dove mettere le mani. O la penna. E non sono un editore. Non sono un’agenzia.
Quindi? Quindi chi se ne frega. Con alcuni editori ho un rapporto di fiducia e stima, se trovo una perla sono felice di girarla perché (per quanto si creda ai complotti) sono sempre in cerca di buoni romanzi.
Interessante, divertente e terribilmente vero questo passaggio di Parente:
al mio disiniteressato consiglio di smettere di scrivere e cominciare a leggere, eccomi trasformato in «pezzo di merda, pallone gonfiato, infimo essere presuntuoso, orribile scracco di verme schifoso».
Ammetto, con pentimento, di non essere riuscito ad andare oltre uno sdolcinato “c’è davvero molto da lavorare…”. Perché l’80% dei manoscritti che ho letto fanno a cazzotti con l’italiano. Non parlo di refusi, stili redazionali. Parlo di “ha” senza h, di doppie z a profusione, di congiuntivi lanciati come durante la semina del granoturco. Allora mi chiedo: la maestra alle elementari giocava a ramino durante la lezione? Oppure a sudoku, tanto per essere più moderno? Possibile. Ma esiste anche una seconda innegabile verità: l’esordiente non legge. Perché se lo facesse, a forza di sfogliare le pagine, a forza di guardare quell’inchiostro che imbratta la carta, almeno per osmosi certe regole dovrebbe impararle. Che ne so, un piccolo dubbio, della serie: “Ah, mi suona male, controlliamo il dizionario e la grammatica va’…”
Niente da fare. La cosa peggiore è la mail, detta anche lettera di accompagnamento. Mi danno del lei, mi danno del voi (in tal caso cancello subito la mail), mi chiedo se almeno sanno cosa ho pubblicato. Probabilmente no, perché nessuno inizia educatamente dandomi un’opinione sui miei libri. Perché, dovrebbe? Non sia mai.
Ma passiamo oltre. Un esordiente mi disse: “Io sono uno scrittore atipico. Scrivo ma non leggo.” Ecco, te non sei atipico, proprio non sei.
Poi c’è il delirio di onnipotenza, quello più frequente. Esempi: “Alla Fazi è piaciuto, sono indeciso però per la successiva proposta della Mondadori. Anche se la Feltrinelli mi ha detto che…”. Onnipotenza sinonimo di pazzia. Perché, voglio dire, se il tuo bestseller ha conquistato editori di tutto rispetto, cosa desideri dal qui presente? La benedizione o l’estrema unzione?
Si passa quindi all’amore familiare: “Mia madre dice che è stupendo!”, oppure all’amicizia pura e casta: “Guarda, il mio migliore amico mi ha costretto a pubblicarlo, dopo aver fatto le 4 di notte pur di finirlo”.
Infine, la lettera strappalacrime, in cui si narrano di drammatiche esperienze personali e come tali traumi abbiano scatenato questo morbo irrefrenabile che ha costretto l’esordiente, adesso vittima di un fato ineluttabile, a liberarsi di questa sofferenza. Per scaricarla sugli altri, come una patata bollente.
Quindi? Soprassiedo in genere. Non do peso a queste cadute di stile, sono errori commessi per ingenuità. O almeno così penso, confido nella buona fede. Però, quando ho tempo, scavo tra le parole. E trovo un sinonimo maledetto. E una sfumatura lessicale. E un aggettivo nascosto. Perché, sì, è naturale. C’è un complotto che farebbe impallidire Wikileaks. Senza spinte non si diventa velina. Senza conoscenze non si diventa scrittori. Senza l’amico, il parente, il politico e lo zerbino. E può essere anche vero. Per tirare fuori un libro che avrà il successo di quello di Corona. Oppure per finire a bussare alla Albatros.
La cosa peggiore è l’illusione che il nome dell’esordiente rimarrà nella storia della letteratura. Pensate che sfiga. Il mio cognome è già stampato nella storia, anche se al singolare.
Ciò che spinge a scrivere è il desiderio di diventare famosi. Di essere ricchi. Di svegliarsi la mattina, mentre tutti si incazzano in tangenziale, farsi una bella colazione in veranda, guardando il panorama mentre gli uccellini cinguettano. E quindi mettersi a scrivere il successivo libro, quello che venderà un milione più del precedente. Ma pochi minuti dopo, purtroppo, squilla il telefono. Arriva una mail. Bussa il postino. E c’è chi ti chiede l’intervista, chi la videointervista, chi la partecipazione in radio, un cammeo al Grande Fratello, un balletto ad Amici, l’entrata trionfale al Teatro Ariston.
Come una spirale, si torna al punto di partenza. Povero scrittore affermato! Come potrebbe trovare il tempo per leggere? Ergo, meglio smettere da giovani.
E, già che ci siamo, smettiamo anche di scrivere.